L’ENTE PUO’ NON PROCEDERE ALL’ASSUZIONE DEL VINCITORE DI UNA SELEZIONE PUBBLICA SE GIURIDICAMENTE IMPOSSIBILITATO – CONSIGLIO DI STATO SENTENZA N. 908/2021

L'ENTE PUO' NON PROCEDERE ALL'ASSUZIONE DEL VINCITORE DI UNA SELEZIONE PUBBLICA SE GIURIDICAMENTE IMPOSSIBILITATO - CONSIGLIO DI STATO SENTENZA N. 908/2021

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BLOCCO DEI POSTI DIRIGENZIALI VACANTI ANCHE PER GLI ENTI LOCALI – CORTE DEI CONTI PUGLIA DELIBERA N. 73/2016

FATTO

Il Sindaco del Comune di Taranto chiede alla Sezione un parere sull’ambito di applicazione dell’art 1, comma 219, l. 28 dicembre 2015 n. 208 (legge di stabilità 2016) che introduce un vincolo di indisponibilità per i posti dirigenziali delle amministrazioni pubbliche.

In particolare, il Sindaco espone che:

  • l’art. 1, comma 219, l. 208/2016 ha previsto che le posizioni dirigenziali vacanti nelle amministrazioni dello Stato al 15 ottobre 2015 siano rese indisponibili, in attesa dell’adozione dei decreti attuativi della legge delega in materia di riforma della dirigenza pubblica;
  • per i comuni è prevista una disciplina diversa (comma 221), dovendo gli stessi procedere alla ricognizione delle dotazioni organiche dirigenziali ed al riordino delle competenze degli uffici dirigenziali, in un’ottica di razionalizzazione, efficientamento e flessibilità;
  • l’ANCI sostiene che il congelamento delle posizioni dirigenziali vacanti non sia direttamente applicabile agli enti locali, sia in ragione della specifica previsione del comma 221 sia in ragione del fatto che la norma in esame fa riferimento alle posizioni dirigenziali di prima e seconda fascia (articolazioni non presenti nella dirigenza di regioni ed enti locali) e richiama la determinazione effettuata ai sensi dell’art 2 del d.l. 95/2012 (non applicabile alle autonomie territoriali);
  • l’indisponibilità dei posti dirigenziali vacanti è espressamente richiamata nella norma che disciplina il turn over dell’amministrazione statale (comma 227) e non anche nel contesto delle regole sulle assunzioni di regioni ed enti locali (comma 228) che ha previsto per il solo personale privo di qualifica dirigenziale la riduzione delle percentuali del turn over nel triennio 2016-2018, lasciando invariate quelle del personale dirigenziale.

Alla luce di quanto sopra esposto, l’ente chiede se la disciplina in esame si applichi agli incarichi dirigenziali degli enti locali, con particolare riferimento a quelli conferiti anteriormente all’entrata in vigore della legge, e, in caso positivo, se sia ostativa alla proroga degli incarichi a termine, in considerazione del fatto che la proroga medesima non comporta la rinnovazione dei rapporti, ma solo la prosecuzione temporale degli stessi.

DIRITTO

Preliminarmente, occorre valutare i profili di ammissibilità, sia soggettiva che oggettiva, della richiesta di parere alla luce dell’art. 7, comma 8, della L. 05/06/2003 n. 131 che conferisce a Regioni, Comuni, Province e Città Metropolitane la possibilità di richiedere alle Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti pareri in materia di contabilità pubblica.

In relazione al profilo di ammissibilità soggettiva, la Sezione osserva che la richiesta di parere è sottoscritta dal Sindaco del comune di Taranto, per cui non vi è dubbio in merito alla sussistenza del requisito predetto.

Non può ritenersi di ostacolo alla ricevibilità della richiesta la mancanza nella Regione Puglia del Consiglio delle Autonomie Locali che, ai sensi dell’art. 123 della Costituzione, nel testo introdotto dalla L. Cost. 18/10/2001 n. 3, deve essere disciplinato dallo Statuto di ogni Regione, quale organo di consultazione tra la Regione stessa e gli Enti locali.

Il Consiglio delle Autonomie Locali, se istituito, è quindi destinato a svolgere, secondo il dettato dell’art. 7, comma 8, della L. n. 131/2003, una funzione di filtro per le richieste di parere da sottoporre alle Sezioni Regionali di Controllo.

Invero, l’art. 45 dello Statuto della Regione Puglia, approvato con L. R. 12/05/2004 n. 7, ha previsto l’istituzione del Consiglio delle Autonomie Locali e con la successiva L. R. del 26/10/2006 n. 29 sono state disciplinate le modalità di composizione, elezione e competenze.

Tuttavia, rilevato che allo stato attuale il Consiglio delle Autonomie Locali non è tuttora operante, la Sezione ritiene soggettivamente ammissibile la richiesta di parere.

Sul piano dell’ammissibilità oggettiva, si rammenta che la Corte dei Conti, secondo il disposto dell’art. 7, comma 8, della L. n. 131/2003, può rendere pareri in materia di “contabilità pubblica”.

Il Collegio evidenzia che le Sezioni Riunite in sede di Controllo, con la deliberazione n. 54 depositata in data 17/11/2010 resa in sede di coordinamento della finanza pubblica ai sensi dell’art. 17, comma 31, del D. L. 1/07/2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla L. 3/08/2009, n. 102, condividendo l’orientamento già espresso dalla Sezione delle Autonomie con la deliberazione n. 5 del 17/02/2006, hanno affermato che la nozione di “contabilità pubblica” strumentale alla funzione consultiva deve assumere un ambito limitato alle normative ed ai relativi atti applicativi che disciplinano l’attività finanziaria che precede o che segue i distinti interventi di settore, ricomprendendo in particolare la disciplina inerente la gestione dei bilanci ed i relativi equilibri, l’acquisizione delle entrate, l’organizzazione finanziaria-contabile, la gestione delle spese, la disciplina del patrimonio, l’indebitamento, la rendicontazione ed i relativi controlli.

Le Sezioni Riunite hanno, inoltre, sottolineato che il concetto di contabilità pubblica consiste nel sistema di principi e di norme che regolano l’attività finanziaria e patrimoniale dello Stato e degli Enti pubblici.

Per consolidato orientamento delle Sezioni Regionali di Controllo, fatto proprio anche da questa Sezione, la funzione consultiva assegnata alla Corte dei conti deve trattare ambiti ed oggetti di portata generale e non fatti gestionali specifici; non può riguardare provvedimenti già formalmente adottati, non potendo tramutarsi in una verifica postuma di legittimità, e non può interferire con le funzioni assegnate ad altre Magistrature o alla stessa Corte.

Stante quanto sopra, il quesito formulato dal Comune di Taranto è ammissibile sul piano oggettivo, in quanto afferente all’interpretazione di disposizioni sul contenimento delle spese del personale.

Tuttavia, l’analisi deve essere circoscritta agli aspetti generali ed astratti della questione, essendo precluso a questa Corte qualunque valutazione inerente ai risvolti applicativi della fattispecie esaminata.

Passando al merito della richiesta, il quesito si incentra sulla corretta delimitazione dell’ambito di applicazione della disciplina dettata in materia di dirigenza dall’art 1, comma 219, legge 208/2015 (legge di stabilità del 2016). In particolare, l’ente chiede se la disposizione da ultimo citata si applichi anche agli enti locali, oltre alle amministrazioni dello Stato, e, in caso di risposta positiva, se siano assoggettati al vincolo di indisponibilità ivi previsto anche le mere proroghe di incarichi dirigenziali a termine.

L’articolo in esame ha introdotto una disciplina transitoria nelle more dell’attuazione della riforma sulla dirigenza prevista dalla legge 124/2015 (c.d. legge Madia) e della ricollocazione del personale soprannumerario appartenente all’area vasta attuata con legge 190/2014 (legge di stabilità 2015). La previsione si incentra sull’apposizione di vincolo di indisponibilità relativamente ai posti dirigenziali presso le pubbliche amministrazioni, al fine di precostituire-in rapporto da mezzo a fine- le condizioni per la riorganizzazione della dirigenza sulla base dei ruoli unici e, contemporaneamente, per garantire il riassorbimento del personale degli enti di area vasta.

La disposizione prevede che “sono resi indisponibili i posti dirigenziali (……)vacanti alla data del 15 ottobre 2015, tenendo comunque conto del numero dei dirigenti in servizio senza incarico o con incarico di studio e del personale dirigenziale in posizione di comando distacco, fuori ruolo o aspettativa”. Gli incarichi indicati, pertanto, sono sottratti alla libera disponibilità delle pubbliche amministrazioni, tanto che, in caso di incarichi conferiti tra la data indicata (15 ottobre 2015), che costituisce il dies a quo di efficacia del suddetto vincolo di indisponibilità, e la data di entrata in vigore della legge, gli stessi cessano di diritto, con risoluzione dei relativi contratti.

Il legislatore, pertanto, in deroga al principio di irretroattività di cui all’art. 11 preleggi, sancisce espressamente l’applicazione retroattiva del vincolo, individuando attraverso una precisa delimitazione temporale (incarichi conferiti dopo il 15 ottobre 2015 e fino alla data di entrata in vigore della legge) i rapporti contrattuali che, afferendo a posizioni divenute indisponibili per la parte pubblica, non sono più suscettibili di avere esecuzione e sono risolti di diritto.

Una volta individuato un ambito temporale di applicazione antecedente all’entrata in vigore della legge e stabilita la sorte dei contratti conclusi medio tempore (con opzione a favore della risoluzione ope legis, quale tipico rimedio del vizio funzionale del sinallagma negoziale, mentre i contratti stipulati successivamente all’entrata in vigore della legge devono considerarsi nulli ab origine ai sensi dell’art 1418 co. 1 c.c.), la norma contempla alcune eccezioni alla regola dell’indisponibilità  ( “Sono fatti salvi i casi per i quali, alla data del 15 ottobre 2015, sia stato avviato il procedimento per il conferimento dell’incarico e, anche dopo la data di entrata in vigore della presente legge, quelli concernenti i posti dirigenziali in enti pubblici nazionali o strutture organizzative istituiti dopo il 31 dicembre 2011, i posti dirigenziali specificamente previsti dalla legge o appartenenti a strutture organizzative oggetto di riordino negli anni 2014 e 2015 con riduzione del numero dei posti e, comunque, gli incarichi conferiti a dirigenti assunti per concorso pubblico bandito prima della data di entrata in vigore della presente legge o da espletare a norma del comma 216, oppure in applicazione delle procedure di mobilità previste dalla legge”), precisando, subito dopo, con una previsione di chiusura, che “In ogni altro caso, in ciascuna amministrazione possono essere conferiti incarichi dirigenziali solo nel rispetto del numero complessivo dei posti resi indisponibili ai sensi del presente comma”.

Ciò posto sul piano dell’assetto generale di disciplina, l’articolo suscita non pochi dubbi sotto il profilo della riferibilità soggettiva, menzionando “i posti  dirigenziali di prima e seconda fascia delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, come rideterminati in applicazione dell’articolo 2 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, e successive modificazioni”.

Come evidenziato dal comune istante, il riferimento ai posti dirigenziali di prima e seconda fascia, articolazione presente esclusivamente nella dirigenza delle amministrazioni statali ai sensi degli artt. 15 e 23 d lgs 165/2001, unitamente al richiamo all’art 2 d.l. 95/2012 (che, rubricato “Riduzione delle dotazioni organiche delle pubbliche amministrazioni” detta una disciplina afferente agli uffici dirigenziali ed alle dotazioni organiche delle amministrazioni dello Stato) induce, a una prima lettura, ad avvallare un’interpretazione restrittiva della disposizione, in quanto riferita unicamente ai posti dirigenziali delle amministrazioni dello Stato.

Si tratta, tuttavia, di un’opzione ermeneutica che trova puntuale smentita alla luce di argomenti di carattere letterale, sistematico e teleologico.

Sul piano letterale, la norma si riferisce a tutte le amministrazioni di cui all’art 1 co 2 d. lgs 165/2001, senza introdurre alcuna espressa eccezione per gli enti locali. Sotto tale profilo, infatti, il rinvio tout court all’art 1 co 2 d lgs 165/2001 costituisce una tipica modalità attraverso cui il legislatore perimetra per relationem l’ambito soggettivo di disciplina, estendendolo a tutti i soggetti enunciati nella disposizione in materia di pubblico impiego (cfr. ad es. art 1 comma 34 l 190/2012  e art 11 d lgs 33/2013 in materia di anticorruzione e trasparenza).

Sul piano sistematico, il comma 224 della citata legge 208/2015, nel prevedere che resta escluso dal campo di applicazione del comma 219- tra gli altri- il personale delle città metropolitane e delle province adibito all’esercizio di funzioni fondamentali, non fa altro che confermare l’opzione ermeneutica sopra indicata, atteso che siffatta eccezione non avrebbe ragion d’essere se gli enti locali fossero esclusi a priori, per estraneità soggettiva, dal raggio operativo della disciplina in esame.

Sempre sul piano sistematico, non paiono fornire argomenti a sostegno della tesi contraria le disposizioni citate dal comune istante: né il comma 221 che, nel prevedere una ricognizione delle dotazioni organiche da parte di regioni ed enti locali e delle competenze degli uffici dirigenziali generali con l’eliminazione di duplicazioni (unitamente alla conferibilità di incarichi dirigenziali  senza vincoli di esclusività ai dirigenti dell’avvocatura civica e della polizia municipale), si limita ad introdurre regole di razionalizzazione organizzativa complementari, e non alternative, a quelle previste dal comma 219; né il comma 228 che, nel sancire una riduzione delle percentuali del turn over per il triennio 2016-2018 limitatamente personale a tempo indeterminato non dirigenziale, ha lasciato inalterata la disciplina già esistente con riferimento al personale dirigenziale e limitatamente ai posti disponibili ai sensi del già citato comma 219 (art. 3, comma 5, del D.L. n. 90/2014, art 1 comma 424, l. 190/2014)

Infine, sul piano logico-teleologico, la norma, come detto, mira a precostituire sotto il profilo dell’efficienza organizzativa, le condizioni migliori per la piena attuazione della riforma della dirigenza tracciata dalla legge 124/2015 e per il completo assorbimento del personale soprannumerario degli enti di area vasta, secondo il percorso delineato dalla legge 190/2014. Si tratta di due obiettivi che coinvolgono non solo le amministrazioni statali, ma anche gli enti territoriali (art 11 l. 124/2015, art 1, comma 424 l. 190/2014), sicché un’eventuale esclusione degli stessi dall’ambito applicativo del comma in esame, in assenza di espressa previsione di legge, sarebbe irragionevole alla luce delle finalità che il legislatore intende perseguire.

Sotto tale profilo ed con particolare riferimento all’obiettivo della ricollocazione del personale di area vasta, la norma si pone, inoltre, in linea di continuità con altre disposizioni che hanno fortemente limitato e condizionato le capacità assunzionali degli enti locali (art 1, comma 424 l. 190/2014, art. 5 del d.l. n. 78/2015 conv. dalla l. 125/2015, su cui si richiamato i principi espressi dalla Sezione delle Autonomie nelle delibere n. 19/SEZAUT/2015/QMIG e 28/SEZAUT/2015/QMIG).

Per le ragioni sopra esposte, l’espresso riferimento ai posti dirigenziali di prima e seconda fascia, come pure il richiamo dell’art 2 d.l. 95/2012, pare più imputabile ad una imperfetta tecnica di formulazione legislativa che ad una reale volontà di circoscrivere l’applicazione della disciplina alle sole amministrazioni statali. Questa Corte, infatti, ha già avuto modo di osservare, in occasione dell’audizione sul disegno di legge di stabilità 2016, come molte delle difficoltà applicative siano imputabili esclusivamente alla scarsa chiarezza nella formulazione dei testi di legge ed ha sottolineato che “le norme vigenti sul blocco delle assunzioni si rivelano non univoche e di difficile lettura ed attuazione” in quanto” il quadro normativo relativo ai vincoli assunzionali si presenta frammentato e non sempre coerente”  (Sezioni Riunite n. N. 16/SSRRCO/AUD/15)

Una volta riconosciuta l’applicabilità della disciplina in commento ai posti dirigenziali degli enti locali, deve ritenersi che ricadano nel vincolo di indisponibilità anche gli incarichi dirigenziali a tempo determinato conferiti entro i limiti di cui all’art 110 co 1 Tuel, ossia in misura non superiore al 30 per cento dei posti istituiti nella dotazione organica della medesima qualifica, trattandosi di fattispecie, da un lato,  non rientranti tra le eccezioni previste dal medesimo comma 219 e, dall’altro lato, certamente attratte nella valenza onnicomprensiva della previsione finale (“In ogni altro caso, in ciascuna amministrazione possono essere conferiti incarichi dirigenziali solo nel rispetto del numero complessivo dei posti resi indisponibili ai sensi del presente comma” ).

Questa Sezione ritiene, infine, che le coordinate ermeneutiche sopra tracciate con riferimento al conferimento di incarichi dirigenziali si attaglino anche alla diversa ipotesi di proroga dei medesimi, atteso che la proroga, al pari del conferimento, presuppone una disponibilità del posto che, come visto, nel caso in esame è preclusa per espressa disposizione di legge con riferimento non solo al periodo successivo all’entrata in vigore, ma anche ad un arco temporale antecedente.

Link al documento: https://servizi.corteconti.it/bdcaccessibile/ricercaInternet/doDettaglio.do?id=1354-11/04/2016-SRCPUG

INCOSTITUZIONALE IL BLOCCO DELLE ASSUNZIONI A SEGUITO DEL NON RISPETTO DEI TEMPI MEDI DEI PAGAMENTI – SENTENZA CORTE COSTITUZIONALE N. 272/2015

Ritenuto in fatto

1.– Con ricorso notificato il 18 agosto 2014, depositato il 22 agosto 2014 e iscritto al n. 63 del registro ricorsi del 2014, la Regione Veneto ha impugnato diverse disposizioni del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitività 2 e la giustizia sociale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 23 giugno 2014, n. 89, fra le quali l’art. 41, comma 2, oggetto del quinto motivo di ricorso. L’art. 41, intitolato «Attestazione dei tempi di pagamento», è inserito nel Titolo III della legge (Pagamento dei debiti delle pubbliche amministrazioni), e in particolare nel Capo III (Strumenti per prevenire il formarsi di ritardi dei pagamenti delle pubbliche amministrazioni). Il comma 2 di esso dispone quanto segue: «Al fine di garantire il rispetto dei tempi di pagamento di cui all’articolo 4 del decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, le amministrazioni pubbliche di cui al comma 1, esclusi gli enti del Servizio sanitario nazionale, che, sulla base dell’attestazione di cui al medesimo comma, registrano tempi medi nei pagamenti superiori a 90 giorni nel 2014 e a 60 giorni a decorrere dal 2015, rispetto a quanto disposto dal decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, nell’anno successivo a quello di riferimento non possono procedere ad assunzioni di personale a qualsiasi titolo, con qualsivoglia tipologia contrattuale, ivi compresi i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa e di somministrazione, anche con riferimento ai processi di stabilizzazione in atto. È fatto altresì divieto agli enti di stipulare contratti di servizio con soggetti privati che si configurino come elusivi della presente disposizione …». Il comma 1 dell’art. 41 (richiamato dal comma 2) del d.l. n. 66 del 2014 fa riferimento alle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), fra le quali rientrano le regioni. 1.1.– La Regione Veneto impugna il citato art. 41, comma 2, del d.l. n. 66 del 2014 per violazione degli artt. 3, 97, 117, primo, terzo e quarto comma, e 119 della Costituzione. Essa ritiene, in primo luogo, che la norma in questione sia «irragionevole oltreché lesiva delle competenze e prerogative regionali», in quanto essa «introduce una “sanzione” del tutto disomogenea rispetto alla violazione cui è connessa, e potenzialmente contrastante con la stessa, senz’altro corretta, finalità che la dovrebbe ispirare». La norma sarebbe, inoltre, «priva di ogni criterio di proporzionalità e congruità» perché invece di collegare «[a]l mancato rispetto dei tempi di pagamento da parte della Pubblica Amministrazione, “sanzioni” o rectius ripercussioni connesse e proporzionate all’inadempimento, prevede, anche in violazione del principio del buon 3 andamento della Pubblica Amministrazione, un irragionevole “blocco” totale delle assunzioni, sotto qualsiasi forma, che potrebbe addirittura anche condurre ad un ulteriore incremento dei tempi di pagamento, ove il ritardo degli stessi sia dovuto proprio alla carenza di personale». La ricorrente argomenta la ridondanza di tali vizi sulla sua sfera di competenza: «la suddetta violazione dei principi di ragionevolezza e di buon andamento ridonda certamente in una violazione delle competenze costituzionali della Regione, dal momento che questa viene indebitamente limitata nella propria capacità di organizzazione amministrativa: si realizza pertanto una indebita interferenza con il IV comma dell’art. 117 che riconosce in tale ambito una competenza legislativa residuale regionale». 1.2.– La Regione Veneto solleva poi una seconda questione. Secondo essa, «la disposizione stabilendo una misura permanente e dettagliata di blocco totale di una specifica voce di spesa concretizza una disposizione puntuale priva del carattere di principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica e pertanto […] contrasta con gli articoli 117, I e III comma, nonché con l’art. 119 della Costituzione». 1.3.– Il 18 settembre 2014 si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ma le argomentazioni svolte nella memoria di costituzione non sono pertinenti rispetto alle questioni sopra illustrate: esse in parte attengono, in generale, all’art. 119 Cost. e, in parte, riguardano i rapporti finanziari tra Stato e Regioni speciali. 1.4.– Con successiva memoria depositata il 10 novembre 2015, la Regione Veneto ha aggiunto un argomento a sostegno della questione fondata sui principi di ragionevolezza e buon andamento della pubblica amministrazione, osservando che la norma impugnata penalizza le regioni «virtuose», che hanno contenuto la spesa per il personale. Nella memoria si rileva che, nel 2012, la Regione Veneto ha speso per il personale una somma molto inferiore a quella di regioni omogenee dal punto di vista della popolazione e che tale disomogeneità «non viene in alcun modo considerata dalla norma impugnata», con violazione dei principi di ragionevolezza, proporzionalità e buon andamento della pubblica amministrazione e conseguente ridondanza sulla competenza regionale in materia di organizzazione amministrativa. Anche l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato una memoria integrativa il 4 10 novembre 2015. In essa la difesa erariale osserva che il blocco delle assunzioni opera solo per l’anno successivo a quello nel quale si è registrato il ritardo nel pagamento dei debiti, sicché «[n]on può […] discorrersi di una misura permanente, limitativa delle […] prerogative regionali sotto il profilo dell’organizzazione amministrativa». Inoltre l’Avvocatura sottolinea che la norma impugnata «si dimostra ragionevole, giacché attraverso di essa il legislatore statale ha voluto evitare che gli enti regionali, procedendo all’assunzione di nuovo personale, vadano ad incrementare ulteriormente la spesa pubblica su di essi gravante, sottraendo così potenziali risorse da destinare invece all’esecuzione tempestiva dei pagamenti». Considerato in diritto 1.– La Regione Veneto ha impugnato l’art. 41, comma 2, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 23 giugno 2014, n. 89, sollevando due distinte questioni di legittimità costituzionale. In primo luogo, la Regione censura la norma – là dove stabilisce che le amministrazioni pubbliche, esclusi gli enti del Servizio sanitario nazionale ma comprese le regioni, che «registrano tempi medi nei pagamenti superiori a 90 giorni nel 2014 e a 60 giorni a decorrere dal 2015, rispetto a quanto disposto dal decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, nell’anno successivo a quello di riferimento non possono procedere ad assunzioni di personale a qualsiasi titolo» – con riferimento agli artt. 3, 97 e 117, quarto comma, della Costituzione. Secondo la ricorrente, l’art. 41, comma 2, del d.l. n. 66 del 2014 violerebbe il principio di ragionevolezza, comprensivo dei profili della omogeneità e della proporzionalità della sanzione, e il principio di buon andamento della pubblica amministrazione, in quanto introdurrebbe una «sanzione» disomogenea rispetto alla violazione cui è connessa, sproporzionata e potenzialmente contrastante con la finalità perseguita. Questi vizi si rifletterebbero sulle competenze costituzionali della Regione Veneto, dal momento che la previsione oggetto di censura limiterebbe l’autonomia regionale nella materia dell’organizzazione amministrativa, di competenza regionale piena ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost. In secondo luogo, l’art. 41, comma 2, del d.l. n. 66 del 2014 violerebbe gli artt. 117, primo e terzo comma, e 119 Cost. perché difetterebbe del carattere di principio 5 fondamentale di coordinamento della finanza pubblica. Si tratterebbe, infatti, di una disposizione puntuale, che introduce una misura permanente e dettagliata di blocco totale di una specifica voce di spesa. 2.– In via preliminare è opportuno accennare al quadro normativo in cui la disposizione impugnata si inserisce. Il decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231 (Attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali), come modificato dal decreto legislativo 9 novembre 2012, n. 192 (Modifiche al decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, per l’integrale recepimento della direttiva 2011/7/UE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, a norma dell’articolo 10, comma 1, della legge 11 novembre 2011, n. 180), si applica «ad ogni pagamento effettuato a titolo di corrispettivo in una transazione commerciale» (art. 1, comma 1), intendendosi per “transazioni commerciali” «i contratti, comunque denominati, tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni, che comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi contro il pagamento di un prezzo» (art. 2, comma 1, lettera a). L’art. 4 (richiamato dalla disposizione impugnata) stabilisce che il pagamento va effettuato entro trenta giorni dalla data di ricevimento, da parte del debitore, della fattura o, in determinati casi, dalla data di ricevimento delle merci o dalla data di prestazione dei servizi (comma 2). Il comma 4 dello stesso articolo dispone che «[n]elle transazioni commerciali in cui il debitore è una pubblica amministrazione le parti possono pattuire, purché in modo espresso, un termine per il pagamento superiore a quello previsto dal comma 2, quando ciò sia oggettivamente giustificato dalla natura particolare del contratto o da talune sue caratteristiche», e che «[i]n ogni caso i termini di cui al comma 2 non possono essere superiori a sessanta giorni». Il d.lgs. n. 231 del 2002 predispone un apparato sanzionatorio civilistico a presidio dei termini da esso fissati, nell’ambito del quale si possono ricordare: il tasso di interesse maggiorato di otto punti percentuali (art. 2, comma 1, lettera e), la decorrenza automatica degli interessi moratori alla scadenza del termine, senza necessità di costituzione in mora (art. 4, comma 1), il risarcimento del danno per le spese di recupero del credito (art. 6) e la nullità delle clausole gravemente inique per il creditore (art. 7). Mentre il d.lgs. n. 231 del 2002 regola il singolo rapporto civilistico tra debitore 6 e creditore (sia esso anche una pubblica amministrazione), l’art. 41, comma 2, del d.l. n. 66 del 2014 introduce specifiche modalità pubblicistiche attinenti ai tempi di adempimento delle obbligazioni privatistiche da parte delle pubbliche amministrazioni. Più precisamente, la norma fissa per esse «tempi medi nei pagamenti» massimi (di 90 giorni nel 2014 e di 60 giorni a decorrere dal 2015) – con termini aggiuntivi, dunque, rispetto a quelli specifici previsti dal d.lgs. n. 231 del 2002 – riferiti non al singolo rapporto ma al complesso dei debiti commerciali dell’ente pubblico, e predispone, a garanzia del loro rispetto, la sanzione del blocco delle assunzioni nell’anno successivo a quello della violazione. Così precisato il quadro normativo di riferimento, va ancora ricordato che l’art. 41, comma 2, del d.l. n. 66 del 2014 è stato modificato, dopo la proposizione del ricorso ma in modo tale da non influire sul thema decidendum, dall’art. 4, comma 4, del decreto-legge 19 giugno 2015, n. 78 (Disposizioni urgenti in materia di enti territoriali. Disposizioni per garantire la continuità dei dispositivi di sicurezza e di controllo del territorio. Razionalizzazione delle spese del Servizio sanitario nazionale nonché norme in materia di rifiuti e di emissioni industriali), convertito, con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della legge 6 agosto 2015, n. 125. Inoltre, gli artt. 4, comma 1, e 6, comma 7, dello stesso d.l. n. 78 del 2015 hanno individuato due casi in cui la sanzione prevista dalla disposizione impugnata non si applica. 3.– Nel merito, la questione è fondata. 3.1.– L’art. 41, comma 2, del d.l. n. 66 del 2014 ha di mira una finalità che legittimamente può essere perseguita dal legislatore statale anche nei rapporti con le regioni. La fissazione di un termine (aggiuntivo, come si è visto, rispetto a quelli previsti all’art. 4 del d.lgs. n. 231 del 2002) per il pagamento dei debiti commerciali delle pubbliche amministrazioni e la previsione di una sanzione, per il caso in cui l’ente pubblico abbia «tempi medi nei pagamenti» superiori a quel termine, non rappresentano strumenti, in sé considerati, incompatibili con l’autonomia costituzionale delle regioni. Previsioni di questo tipo sono dirette a fronteggiare una situazione che provoca gravi conseguenze per il sistema produttivo (soprattutto per le piccole e medie imprese) e a favorire la ripresa economica, con effetti positivi anche per la finanza pubblica (si pensi all’aumento di entrate tributarie derivante dal soddisfacimento dei creditori e al possibile aumento del prodotto interno lordo (Pil), che rileva ai fini del rispetto del patto 7 europeo di stabilità: sentenza n. 8 del 2013). Per le stesse ragioni, anche la sanzione prescelta per raggiungere l’obiettivo indicato, ossia il divieto temporaneo, per le amministrazioni che si siano rese inadempienti, di procedere ad assunzioni di personale, può rientrare nell’ambito dei poteri del legislatore statale, ancorché essa investa un aspetto essenziale dell’autonomia organizzativa delle regioni e degli altri enti pubblici (sentenze n. 61 e n. 27 del 2014, n. 130 del 2013, n. 259, n. 217 e n. 148 del 2012). Al riguardo va respinto l’assunto della regione secondo il quale la norma impugnata non concreterebbe un principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica. La materia del «coordinamento della finanza pubblica», infatti, non può essere limitata alle norme aventi lo scopo di limitare la spesa, ma comprende anche quelle aventi la funzione di “riorientare” la spesa pubblica (come nel caso dell’art. 41, comma 2, del d.l. n. 66 del 2014), per una complessiva maggiore efficienza del sistema. Questa Corte ha giustificato una norma statale che introduceva una misura premiale (concernente il rispetto del patto di stabilità) a favore delle regioni che sviluppavano «adeguate politiche di crescita economica» (nella specie, attuazione dei principi di liberalizzazione delle attività economiche), rilevando che la crescita economica giova anche alla finanza pubblica (sentenza n. 8 del 2013). La previsione impugnata, avendo lo scopo di incentivare una più corretta gestione della spesa pubblica, nell’interesse delle imprese ma anche del sistema complessivo pubblico-privato, può essere considerata un principio di coordinamento della finanza pubblica, sia nella parte in cui fissa i termini, sia nella parte in cui stabilisce la sanzione. Conseguentemente va respinta la seconda censura avanzata dalla ricorrente. 3.2.– La soluzione in concreto adottata dal legislatore statale nella norma censurata dalla Regione Veneto, tuttavia, si pone in contrasto con il principio di proporzionalità, il quale, se deve sempre caratterizzare il rapporto fra violazione e sanzione (sentenze n. 132 e n. 98 del 2015, n. 254 e n. 39 del 2014, n. 57 del 2013, n. 338 del 2011, n. 333 del 2001), tanto più deve trovare rigorosa applicazione nel contesto delle relazioni fra Stato e regioni, quando, come nel caso in esame, la previsione della sanzione ad opera del legislatore statale comporti una significativa compressione dell’autonomia regionale (sentenze n. 156 del 2015, n. 278 e n. 215 del 2010, n. 50 del 2008, n. 285 e n. 62 del 2005, n. 272 del 2004). 8 L’art. 41, comma 2, del d.l. n. 66 del 2014, là dove prevede che qualsiasi violazione dei tempi medi di pagamento da parte di un’amministrazione debitrice, a prescindere dall’entità dell’inadempimento e dalle sue cause, sia sanzionata con una misura a sua volta rigida e senza eccezioni come il blocco totale delle assunzioni per l’amministrazione inadempiente (con l’unica esclusione degli enti del Servizio sanitario nazionale e dei casi di cui all’art. 4, comma 1, e all’art. 6, comma 7, del già citato d.l. n. 78 del 2015), non supera il test di proporzionalità, il quale «richiede di valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi» (sentenza n. 1 del 2014). 3.2.1.– La violazione della proporzionalità si manifesta innanzitutto nell’inidoneità della previsione a raggiungere i fini che persegue. Il meccanismo predisposto dall’art. 41, comma 2, del d.l. n. 66 del 2014, infatti, non appare di per se stesso sempre idoneo a far sì che le amministrazioni pubbliche paghino tempestivamente i loro debiti e non costituisce quindi un adeguato deterrente alla loro inadempienza. Il blocco delle assunzioni, colpendo indistintamente ogni violazione dei tempi medi di pagamento, può investire amministrazioni che, nell’anno di riferimento, siano state in ritardo con il pagamento dei loro debiti per cause legate a fattori ad esse non imputabili. Nel caso degli enti territoriali, in particolare, il ritardato pagamento dei debiti potrebbe dipendere dal mancato trasferimento di risorse da parte di altri soggetti o dai vincoli relativi al patto di stabilità. Il possibile rilievo del mancato trasferimento delle risorse ai fini del tempestivo pagamento dei debiti è confermato dal fatto che lo stesso d.l. n. 66 del 2014 contiene una disposizione (l’art. 44) che, al «fine di agevolare il rispetto dei tempi di pagamento di cui al decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231», regola i «Tempi di erogazione dei trasferimenti fra pubbliche amministrazioni». Quanto al patto di stabilità, si può osservare che il decreto-legge 8 aprile 2013, n. 35 (Disposizioni urgenti per il pagamento dei debiti scaduti della pubblica amministrazione, per il riequilibrio finanziario degli enti territoriali, nonché in materia di versamento di tributi degli enti locali), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, 9 comma 1, della legge 6 giugno 2013, n. 64, ha cercato di far fronte al problema del pagamento dei debiti scaduti delle amministrazioni pubbliche prevedendo, fra l’altro, «l’allentamento del patto di stabilità interno» (sentenza n. 181 del 2015). La mancata considerazione della causa del ritardo, al quale consegue automaticamente l’applicazione della sanzione prevista dalla legge, rende ipotetica e, in definitiva, aleatoria l’idoneità della norma a conseguire la sua finalità, dal momento che, nei casi in cui il ritardo non fosse superabile con un’attività rimessa alle scelte di azione e di organizzazione proprie dell’ente pubblico, la minaccia del blocco delle assunzioni o la sua concretizzazione non potrebbe sortire l’effetto auspicato. 3.2.2.– La previsione impugnata non supera il test di proporzionalità nemmeno da un altro punto di vista, e anche volendosi limitare a considerare l’ipotesi del ritardo dipendente da disfunzioni e negligenze dell’ente nella gestione delle procedure di pagamento. La rigidità della previsione, sia sul versante della individuazione della violazione (senza differenziazione fra le ipotesi di superamento minimo dei tempi medi prescritti e le altre), sia su quello delle sue conseguenze (la sanzione è in ogni caso il blocco totale), porta a ritenere, infatti, che l’obiettivo perseguito potesse essere raggiunto con un sacrificio minore – più precisamente con un sacrificio opportunamente graduato – degli interessi costituzionalmente protetti, per quanto qui specificamente rileva, delle regioni e delle relative comunità. In questo stesso contesto non può essere trascurato nemmeno il fatto che la norma non tiene conto della situazione dell’ente pubblico dal punto di vista della dotazione di personale. A seconda di tale situazione, l’afflittività della sanzione in essa prevista può variare imprevedibilmente e risultare eccessiva (e, dunque, sproporzionata) proprio per quelle regioni che, negli ultimi anni, hanno ridotto la propria spesa per il personale, in ottemperanza ai vincoli posti dal legislatore statale. 3.2.3.– Per tutto quanto esposto, l’art. 41, comma 2, del d.l. n. 66 del 2014 si pone, sotto vari profili, in contrasto con il principio di proporzionalità ricavabile dall’art. 3, primo comma, Cost., e tale violazione si risolve in una illegittima compressione dell’autonomia regionale in materia di organizzazione amministrativa, spettante alla competenza regionale piena (art. 117, quarto comma, Cost.). 3.3.– Per ragioni non diverse da quelle appena considerate con riferimento alla lesione del principio di proporzionalità, la norma censurata si rivela confliggente anche 10 con l’art. 97, secondo comma, Cost.: se, da un lato, il blocco delle assunzioni è senz’altro suscettibile di pregiudicare il buon andamento della pubblica amministrazione, dall’altro lato la limitazione non risulta giustificata dalla tutela di un corrispondente interesse costituzionale, dato che, come si è visto, si tratta di una misura inadeguata a garantire il rispetto del termine fissato per il pagamento dei debiti. Anche tale violazione si traduce, come è evidente, in una lesione delle medesime competenze costituzionali della ricorrente in materia di organizzazione amministrativa.

PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 41, comma 2, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 23 giugno 2014, n. 89, in riferimento agli artt. 3, 97, secondo comma, e 117, quarto comma, della Costituzione.