FATTO e DIRITTO
Con delibera della Giunta Municipale 11/7/2008 n. 813, il Comune di Salerno ha proceduto – sulla base di una procedura selettiva per la verifica dell’idoneità professionale – alla stabilizzazione di alcuni dipendenti precari, fra cui la sig.ra Anna Fiore.
A seguito di un’indagine della Procura regionale della Corte dei Conti (cui ha, poi, fatto seguito la sentenza 3/9/2015 n. 788), la Giunta municipale di Salerno ha emanato prima la delibera 15/2/2013 n. 43, con la quale ha sospeso i provvedimenti di stabilizzazione e, poi, la delibera 6/11/2013 n. 379, con la quale ha annullato d’ufficio la citata deliberazione n. 813/2008.
Ritenendo le delibere del 2013 illegittime, la sig.ra Fiore, le ha impugnate con ricorso e successivi motivi aggiunti davanti al TAR Campania – Salerno, il quale, con sentenza della Sezione II, 17/3/2014 n. 579, ha dichiarato improcedibile il ricorso introduttivo, essendo la deliberazione n. 43/2013 col medesimo impugnata, ormai superata dalla successiva deliberazione di annullamento in autotutela n. 379/2013 e ha accolto i motivi aggiunti rivolti contro quest’ultima.
Il giudice ha motivato la decisione sulla base dei rilievi qui di seguito sinteticamente riassunti:
a) l’impugnato provvedimento di ritiro è viziato in quanto adottato col contributo del Dirigente del Settore Personale e di cinque componenti della Giunta municipale che, per essere personalmente coinvolti nell’indagine della Procura contabile, si sarebbero dovuti astenere trovandosi in situazione di conflitto d’interesse;
b) la delibera è illegittima in quanto priva di motivazione in ordine all’interesse pubblico sottostante al riesame. L’amministrazione avrebbe dovuto, comunque, valutare la possibilità di confermare il rapporto di lavoro in essere, facendo leva su previsioni normative diverse o sopravenute e in particolare sull’art. 4, comma 6 quater, della L. 30/12/2013, n. 125;
c) ai fini della stabilizzazione l’amministrazione aveva accertato la sussistenza, nella relazione intercorsa col personale precario, di tutti gli elementi caratterizzanti il rapporto di pubblico impiego. Ebbene, contrariamente a quanto sarebbe stato necessario, l’indagine sulla natura del rapporto intercorso tra amministrazione e personale precario non è stata in alcun modo confutata in sede di autotutela.
Avverso la sentenza ha proposto appello il Comune di Salerno.
Per resistere al gravame si è costituita in giudizio la sig.ra Fiore, la quale ha, poi, ulteriormente illustrato le proprie tesi difensive con successive memorie.
Alla pubblica udienza del 25/2/2016, la causa è stata trattenuta in decisione.
Col primo motivo di appello si deduce che l’impugnata sentenza sarebbe erronea nella parte in cui ha ritenuto fondata la censura concernente la dedotta violazione dell’art. 6 bis della L. 7/8/1990, n. 241.
Difatti:
a) nella fattispecie non vi sarebbe conflitto di interesse, ma coincidenza tra interesse privato e interesse pubblico;
b) non sarebbe stato dimostrato che i soggetti ipoteticamente in situazione di conflitto abbiano potuto adottare una decisione contraria al pubblico interesse;
c) ove la tesi fatta propria dal giudice di prime cure fosse corretta, la Giunta Municipale non potrebbe operare, non potendo essere assicurato il quorum strutturale.
Col secondo motivo l’appellante deduce l’erroneità della gravata sentenza nella parte in cui ha ritenuto l’atto impugnato viziato perché privo di motivazione in ordine all’interesse pubblico al ritiro.
Nei casi come quello di specie, infatti, non sarebbe richiesta alcuna specifica motivazione, dovendo ritenersi il detto interesse in re ipsa.
I due motivi, entrambi fondati, si prestano ad una trattazione congiunta.
Come correttamente dedotto dall’appellante amministrazione, nel caso di specie non è ravvisabile alcun conflitto d’interesse.
Per pacifica giurisprudenza, quest’ultimo sussiste allorché i componenti di un collegio amministrativo siano portatori di un interesse personale divergente da quello affidato alle cure dell’organo di cui fanno parte (Cons. Stato, Sez. III, 2/4/2014 n. 1577; Sez. V, 13/6/2008 n. 2970).
Nel caso di specie tale divergenza non è configurabile, in quanto, l’interesse dei componenti della Giunta Municipale e del Dirigente del Settore Personale, coincide con quello pubblico perseguito con l’atto di ritiro, ovvero evitare non dovuti esborsi di denaro pubblico per effetto di provvedimenti di stabilizzazione ritenuti illegittimi.
Giova soggiungere che la verifica della sussistenza del conflitto d’interessi, dovendo essere condotta sotto un profilo eminentemente oggettivo, non è influenzata dalle motivazioni soggettive poste a base dell’agire.
Nella fattispecie, pertanto, a nulla rileva che componenti della Giunta Municipale e Dirigente del Settore Personale siano stati spinti a provvedere in autotutela dall’esigenza, prettamente egoistica, di alleggerire la propria posizione sotto il profilo della responsabilità contabile.
Al di là delle dirimenti considerazioni appena svolte, occorre, comunque, rilevare che il dovere di astensione per conflitto di interessi, costituisce esplicazione del più generale principio di imparzialità, che a sua volta rappresenta uno dei canoni a cui l’amministrazione, ex art. 97 cost., deve informarsi nell’esercizio dell’attività discrezionale.
Sennonché, l’atto della cui legittimità nella specie si controverte, non ha natura discrezionale, bensì vincolata.
Difatti, se è vero che, di regola, il potere di autotutela ha natura discrezionale, occorrendo, che accanto all’illegittimità del provvedimento di primo grado, sussista anche un interesse pubblico al ritiro da comparare con quello del privato al mantenimento dell’atto, fanno eccezione alla regola le ipotesi in cui, essendo l’interesse pubblico in re ipsa, l’amministrazione non è chiamata a compiere alcuna valutazione al fine di poter disporre l’annullamento d’ufficio, essendo sufficiente, al riguardo, il mero riscontro dell’illegittimità dell’atto da annullare.
In tali casi, la natura vincolata del potere, esclude che vi siano spazi per poter apprezzare profili di imparzialità.
Orbene, per un’ormai consolidata giurisprudenza che il Collego condivide, l’annullamento d’ufficio degli atti da cui discendono continuativi e non dovuti esborsi di denaro pubblico, quali quelli di illegittima costituzione di rapporti di lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni, è doveroso, dovendo ritenersi l’interesse pubblico al ritiroin re ipsa (cfr. fra le tante, Cons. Stato, Sez. V, 23/10/2014 n. 5267; Sez. VI, 14/7/2011 n. 4284).
La stessa giurisprudenza afferma, inoltre, che dovendo nei detti casi considerarsi l’interesse pubblico al ritiro degli atti illegittimi, in re ipsa, non occorre motivazione in ordine alla sua sussistenza, né valutazione della posizione dei destinatari, i quali non possono vantare affidamenti tutelabili al mantenimento dell’atto di primo grado, nemmeno in considerazione del lungo termine trascorso (Cons. Stato, Sez. III, 11/11/2014 n. 5539; Sez. V, 15/11/2012 n. 5772).
Col terzo motivo l’appellante lamenta che il giudice di prime cure avrebbe errato:
a) nel ritenere che, siccome la stabilizzazione era avvenuta sul presupposto dell’avvenuto accertamento dell’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo determinato, il legittimo esercizio del potere di autotutela avrebbe richiesto
una nuova valutazione che smentisse, sul punto, le conclusioni precedentemente raggiunte;
b) nell’affermare che il Comune fosse tenuto a valutare “la possibilità di confermare il rapporto di lavoro in essere … facendo leva su previsioni normative diverse o sopravenute e in particolare sull’art. 4, comma 6 quater, della L. 30/12/2013, n. 125”.
Difatti, per un verso, il procedimento di stabilizzazione risulterebbe insanabilmente viziato dal fatto che la parte appellata è stata assunta con mere convenzioni di collaborazione coordinata e continuativa e non ha mai superato una vera e propria procedura concorsuale, per altro verso, non sussisterebbero i presupposti per l’applicazione dell’art. 4, comma 6 quater, della L. n. 125/2013 (contratto di lavoro a tempo determinato e almeno tre anni di servizio), ovvero di altre disposizioni (art. 1, comma 560, della citata L. n. 296 del 2006), senza contare che l’amministrazione non avrebbe alcun obbligo di attivare le procedura di cui ai detti articoli.
Obietta la parte appellata che il motivo non sarebbe rivolto contro la sentenza, così configurandosi un profilo di inammissibilità della censura.
L’eccezione non merita accoglimento.
Si legge nell’atto d’appello (terzo motivo): “Tutte tali considerazioni (quelle svolte dal TAR) stupiscono sol che si consideri quanto si era già sostenuto in modo compiuto e documentato nella memoria di replica ai motivi aggiunti presentati in primo grado dal dipendente … che il TAR pare avere ignorato totalmente.
All’uopo si ritiene di richiamare gli stralci principali e riproporli integralmente all’attenzione, si spera maggiore, dell’adito Consiglio”.
Non sembra dubbia, al di là della formula utilizzata, la volontà dell’appellante di contestare la sentenza, rivolgendo contro la stessa i medesimi rilievi prospettati in primo grado con la menzionata memoria difensiva, riprodotta per stralcio nel corpo del motivo.
Peraltro è noto che l’osservanza della prescrizione posta dall’art. 101, comma 1, c.p.a., che impone all’appellante di formulare specifiche censure contro i capi della sentenza gravata, va valutata tenendo presente la specificità delle singole vicende processuali e la natura dei rilievi mossi dalla parte appellante alla pronuncia contro la quale insorge.
In particolare, ove tali rilievi si traducano in un radicale dissenso rispetto al percorso motivazionale seguito dal primo giudice, al quale se ne contrappone uno totalmente alternativo, o, peggio, nell’affermazione del non avere il primo giudice dato realmente riscontro alle argomentazioni difensive prospettategli, è naturale che l’atto di impugnazione, pur avendo a proprio oggetto la decisione di prime cure, finisca per sollecitare al giudice di appello un vero e proprio riesame delle dette argomentazioni (cfr, fra le tante, Cons. Stato, Sez. IV, 12/11/2015 n. 5136).
Nel caso di specie, l’appellante ha, per l’appunto, rimproverato al giudice di prime cure di “aver ignorato totalmente” i propri rilievi difensivi.
Il motivo può, dunque, essere esaminato nel merito e risulta fondato.
Occorre premettere che con la delibera n. 813/2008, il Comune di Salerno ha proceduto alla stabilizzazione di alcuni dipendenti precari, tra cui la parte appellata, ai sensi dell’art. 1, comma 558, della L. 27/12/2006, n. 296, come integrato dall’art. 3, commi 90 e 94, della L. 24/12/2007, n. 244.
Il ricordato art. 1, comma 558, della L. n. 296 del 2006 dispone: “A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, gli enti di cui al comma 557 fermo restando il rispetto delle regole del patto di stabilità interno, possono procedere, nei limiti dei posti disponibili in organico, alla stabilizzazione del personale non dirigenziale in servizio a tempo determinato da almeno tre anni, anche non continuativi, o che consegua tale requisito in virtù di contratti stipulati anteriormente alla data del 29 settembre 2006 o che sia stato in servizio per almeno tre anni, anche non continuativi, nel quinquennio anteriore alla data di entrata in vigore della presente legge, nonché del personale di cui al comma 1156, lettera f), purché sia stato assunto mediante procedure selettive di natura concorsuale o previste da norme di legge. Alle iniziative di stabilizzazione del personale assunto a tempo determinato mediante procedure diverse si provvede previo espletamento di prove selettive”.
Il comma 94 dell’art. 3 della L. n. 244 del 2007, che qui rileva, stabilisce: “Fatte comunque salve le intese stipulate, ai sensi dei commi 558 e 560 dell’articolo 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296, prima della data di entrata in vigore della presente legge, entro il 30 aprile 2008, le amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, predispongono, sentite le organizzazioni sindacali, nell’ambito della programmazione triennale dei fabbisogni per gli anni 2008, 2009 e 2010, piani per la progressiva stabilizzazione del seguente personale non dirigenziale, tenuto conto dei differenti tempi di maturazione dei presenti requisiti:
a) in servizio con contratto a tempo determinato, ai sensi dei commi 90 e 92, in possesso dei requisiti di cui all’ articolo 1, commi 519 e 558, della legge 27 dicembre 2006, n. 296;
b) già utilizzato con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, in essere alla data di entrata in vigore della presente legge, e che alla stessa data abbia già espletato attività lavorativa per almeno tre anni, anche non continuativi, nel quinquennio antecedente al 28 settembre 2007, presso la stessa amministrazione, fermo restando quanto previsto dall’ articolo 1, commi 529 e 560, della legge 27 dicembre 2006, n. 296. È comunque escluso dalle procedure di stabilizzazione di cui alla presente lettera il personale di diretta collaborazione degli organi politici presso le amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, nonché il personale a contratto che svolge compiti di insegnamento e di ricerca nelle università e negli enti di ricerca”.
Il comma 529, dell’art. 1, della L. n. 296 del 2006, prevede infine: “Per il triennio 2007-2009 le pubbliche amministrazioni indicate al comma 523, che procedono all’assunzione di personale a tempo determinato, nei limiti ed alle condizioni previsti dal comma 1-bisdell’articolo 36 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nonché dal comma 538 del presente articolo, nel bandire le relative prove selettive riservano una quota del 60 per cento del totale dei posti programmati ai soggetti con i quali hanno stipulato uno o più contratti di collaborazione coordinata e continuativa, per la durata complessiva di almeno un anno raggiunta alla data del 29 settembre 2006, attraverso i quali le medesime abbiano fronteggiato esigenze attinenti alle ordinarie attività di servizio”.
Dal combinato disposto delle trascritte disposizioni, in particolare delle ultime due, emerge con sufficiente chiarezza come la stabilizzazione del personale assunto con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, stipulati senza una preventiva procedura concorsuale a monte, fosse subordinata al superamento di un vero e proprio concorso pubblico (ovvero una procedura aperta anche agli esterni).
Ciò, si ricava incontrovertibilmente dal richiamato comma 529, laddove, stabilendo che le “prove selettive riservano una quota del 60 per cento del totale dei posti programmati ai soggetti con i quali hanno stipulato uno o più contratti di collaborazione coordinata e continuativa”, esso evidenzia che le dette procedure devono essere aperte alla partecipazione tanto di interni, quanto di esterni.
Nella fattispecie la parte appellata ha svolto, presso il Comune di Salerno,
attività di collaborazione, su base convenzionale, non configurabile, come emerge dalla citata sentenza della Corte dei Conti n. 788/2015, quale rapporto di lavoro dipendente a tempo determinato, anche per la presenza di specifica clausola contrattuale che escludeva espressamente tale natura.
Il rapporto, inoltre, non era stato instaurato sulla base di una procedura concorsuale a monte.
Conseguentemente, la stabilizzazione poteva avvenire solo previo superamento di un vero e proprio concorso pubblico.
La costituzione del rapporto di impiego a tempo indeterminato, è, tuttavia, avvenuta sulla sola base di prove meramente idoneative e, quindi, giusta quanto poc’anzi rilevato, del tutto illegittimamente.
Una volta constatata la mancanza dei requisiti richiesti dalla legge ai fini della stabilizzazione, l’atto di ritiro assumeva, come più sopra già rilevato, natura vincolata.
Dunque, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di prime cure, non occorreva alcuna motivazione che desse conto del perché, in ordine agli accertamenti che, in origine, avevano condotto a ritenere sussistente un rapporto di lavoro a tempo determinato, si giungesse ad una conclusione di stampo diverso, essendo sufficiente l’oggettivo riscontro della carenza delle prescritte condizioni di legge.
Deduce la parte appellata che all’accertamento compiuto con la delibera n. 813/2008, in ordine alla sussistenza nel caso concreto degli elementi caratterizzanti il rapporto di lavoro subordinato, dovrebbe, comunque, riconoscersi natura transattiva.
L’affermazione è irrilevante ai fini di causa, atteso che ciò che conta, per la legittimità del procedimento di stabilizzazione, è l’effettiva ed oggettiva natura del rapporto di lavoro intercorso tra dipendente precario e amministrazione.
Nemmeno può ritenersi che il Comune, una volta appurata l’illegittimità della delibera n. 813/2008, dovesse, prima di poter procedere al suo annullamento d’ufficio, verificare la possibilità di confermare il rapporto di lavoro instaurato con la parte appellata, sulla base di altra e diversa normativa.
Ed invero, per un verso l’annullamento d’ufficio di un atto amministrativo viziato che generi continuativi esborsi di denaro pubblico è, come più sopra evidenziato, doveroso; per altro verso, la decisione di attivare procedure di stabilizzazione sulla base di differenti disposizioni normative, fa capo ad un potere di scelta eminentemente discrezionale dell’amministrazione, la quale non è quindi tenuta ad esercitarlo al fine di poter procedere in autotutela.
Del resto, l’art. 21 nonies della L. 7/8/1990, n. 241 e succ. mod. ed integr., laddove fa “salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole”, si riferisce, con tutta evidenza, alla possibilità di sanare, ricorrendone i presupposti, il procedimento della cui illegittimità si tratta, senza implicare anche il dovere dell’amministrazione di porre rimedio alla situazione verificatasi attraverso il ricorso all’esercizio di poteri differenti.
L’appello va, in definitiva, accolto e, per l’effetto in riforma dell’impugnata sentenza, deve essere respinto il rivorso proposto in primo grado .
Restano assorbiti tutti gli argomenti di doglianza, motivi od eccezioni non espressamente esaminati che la Sezione ha ritenuto non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
La peculiarità delle questioni affrontate giustifica l’integrale compensazione delle spese e degli onorari di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta),
definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo
accoglie e, per l’effetto, in riforma dell’impugnata sentenza, respinge il ricorso proposto in primo grado.
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