FATTO
Con atto di citazione depositato il 20 novembre 2015, la Procura Regionale presso la Sezione Giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Piemonte ha convenuto in giudizio la sig.ra Ornella BOLDINI per sentirla condannare al pagamento in favore dell’A.S.L. del Verbano Cusio Ossola, della somma complessiva di € 89.305,67, salvo somme diversamente risultanti di giustizia, oltre alla rivalutazione monetaria, agli interessi legali ed alle spese del giudizio.
L’atto di citazione predetto risulta preceduto dalla notifica, in data 24 maggio 2015, del corrispondente invito a dedurre, ai sensi dell’articolo 5, 1° comma, del D.L. 15 novembre 1993, nr. 453, convertito, con modificazioni, dalla Legge 14 gennaio 1994, nr. 19, con il quale l’interessata è stata, altresì, costituita in mora per il pagamento
della somma sopra indicata.
Nei termini l’invitata ha presentato deduzioni, chiedendo l’audizione personale che si è svolta in data 07/01/2015, come da relativo verbale.
Nel corso dell’audizione del giorno 17 giugno 2015 la medesima ha precisato di essersi trovata all’insaputa delle conseguenze possibili in ordine all’espletamento di attività professionale presso le carceri, di cui tutti erano a conoscenza e che, comunque, la detta attività era stata espletata in buona fede.
La Procura Regionale, tuttavia, non ha ritenuto che le dichiarazioni della signora BOLDINI fossero idonee per procedere all’archiviazione dell’istruttoria.
La conseguente citazione a giudizio, oggi in discussione, scaturisce dalle indagini effettuate dalla Procura Regionale a seguito della comunicazione, in data 23 settembre 2013, dell’Azienda Sanitaria Locale del Verbano Cusio Ossola (A.S.L. V.C.O.), con sede in Omegna (Verbania), secondo cui sarebbe emerso che la dipendente Ornella Boldini – infermiera professionale – ha percepito compensi dovuti allo svolgimento di attività extraistituzionale non autorizzata presso la Casa Circondariale di Verbania nel periodo di tempo compreso fra il 1° aprile 2001 ed il 31 agosto 2008.
Più in particolare, l’Azienda Sanitaria Locale del Verbano Cusio Ossola sarebbe venuta a conoscenza dell’espletamento di tale attività in occasione degli adempimenti connessi al trasferimento delle funzioni di assistenza sanitaria presso le carceri dal Ministero della Giustizia alle Aziende Sanitarie.
Per lo svolgimento del suddetto incarico, non preventivamente autorizzato, la convenuta ha percepito la somma di euro € 89.305,67, corrispondente all’importo della condanna richiesta in citazione.
Sostiene parte attrice che nel caso specifico:
-sussiste la giurisdizione della Corte dei conti per espressa previsione legislativa dell’art 53, comma 7bis, D.Lgs 165/2001 introdotto dall’art.1, comma 42, L.190/2012, peraltro preceduta da giurisprudenza della Corte di Cassazione (SS.UU. ord. 2/11/2011 22688);
- sussiste la condotta lesiva per avere la convenuta svolto un incarico retribuito senza la preventiva necessaria autorizzazione dell’Amministrazione di appartenenza, espressamente previsto dalla legge, violando i doveri connessi al rapporto di servizio;
- sussiste il danno erariale in misura pari alle somme percepite per detto incarico;
- sussiste l’elemento soggettivo, quanto meno nella forma della colpa grave, attesa la reiterazione nel tempo della condotta in violazione dell’obbligo di servizio inerente all’autorizzazione preventiva stabilita dalla norma di riferimento.
Di conseguenza il relativo giudizio è venuto in trattazione all’odierna udienza nella quale la convenuta non risulta essersi costituita in giudizio.
All’udienza in data 14 giugno 2016 il Procuratore Regionale ha illustrato i motivi della citazione, confermando tutte le conclusioni rassegnate in atti.
Quindi, il Presidente ha dichiarato chiusa la discussione e ha posto la causa in decisione.
Considerato in
DIRITTO
Preliminarmente, il Collegio, accertata la regolarità della notificazione dell’atto di citazione e la mancata costituzione dell’odierna convenuta, in condivisione della richiesta del P.M., ne dichiara la contumacia ai sensi dell’art. 171, c. 3, c.p.c. (in tal senso ex plurimis, Corte dei conti, Sez. giur. Lazio, n. 408/2013; Sez. giur. Veneto, n. 200/2013; Sez. Giur. Piemonte, n. 126/2013).
Il thema decidendum nella fattispecie in esame concerne una serie di condotte contestate alla convenuta, le quali – secondo la domanda attrice – hanno arrecato un danno patrimoniale diretto all’Amministrazione pubblica – nella specie, l’ASL del Verbano-Cusio-Ossola – perché la medesima convenuta, nell’arco temporale compreso fra il 1 aprile 2001 ed il 31 agosto 2008, ha svolto attività retribuita presso terzi senza l’autorizzazione prescritta dall’art. 53, co.7, d.lgs. n.165 del 2001.
In proposito, si rammenta che la norma, nel testo vigente anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 1, comma 42, della legge 190 del 2012 disponeva:“I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza. Con riferimento ai professori universitari a tempo pieno, gli statuti o i regolamenti degli atenei disciplinano i criteri e le procedure per il rilascio dell’autorizzazione nei casi previsti dal presente decreto. In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti”.
Tanto precisato, circa la corretta applicazione al caso di specie della disciplina autorizzatoria di cui all’art. 53, comma 7 del D.lgs. n. 165/2001, il Collegio rileva che la corretta ratio della norma sopra menzionata è quella di consentire sostanzialmente al datore di valutare la compatibilità di attività extralavorativa con il corretto e puntuale espletamento, in modo terzo ed imparziale, della prestazione contrattualmente dovuta dal lavoratore alla P.A..
Preliminarmente, il Collegio, come già in precedenza chiarito da questa stessa Sezione (v., Sez. Piemonte, sent. n. 78 del 2015), ritiene di sgombrare ogni dubbio in merito alla sussistenza della giurisdizione contabile sull’azione risarcitoria scaturente dall’applicazione della normativa recata dall’art.1, comma 60, della l.n.662 del 1996 e dell’art.53, comma 7, del d.lgvo n.165 del 2001, e ciò sulla base dell’autorevole pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con l’ordinanza 2 novembre 2011 n.22688.
Nella predetta ordinanza (emessa in sede di regolamento preventivo di giurisdizione proposto nell’ambito di un giudizio pendente innanzi alla sezione giurisdizionale laziale relativo ad un’analoga azione risarcitoria del p.m. contabile) si è affermato, citasi testualmente, che “trattasi di prescrizioni chiaramente strumentali al corretto esercizio delle mansioni, in quanto preordinate a garantirne il proficuo svolgimento attraverso il previo controllo dell’Amministrazione sulla possibilità, per il dipendente, d’impegnarsi in un’ulteriore attività senza pregiudizio dei compiti d’istituto;” ancora, che “la loro violazione può essere pertanto addotta come fonte di responsabilità amministrativa capace di radicare la giurisdizione della Corte dei conti”; infine, che “una conclusione del genere non suscita alcun dubbio di legittimità costituzionale, perché contribuisce ad assicurare il buon andamento degli uffici, non distoglie i dipendenti dal suo giudice naturale (che per quanto riguarda la responsabilità amm.va è, per l’appunto, la Corte dei conti) e non li sottopone ad alcuna irragionevole disparità di trattamento rispetto ai lavoratori privati che, in quanto estranei all’amm.ne, non si trovano nella medesima posizione di quelli pubblici”.
Alla predetta pronuncia è seguito, come noto, l’intervento del legislatore, il quale ha introdotto, con l’art.1, comma 42, lett. d) della l. n.190 del 2012, il comma 7 bis all’art.53 del d.lgvo n.165 del 2001, secondo cui “L’omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”.
Pertanto, in adesione ad un preciso orientamento già formatosi in seno alle sezioni di appello con riferimento ad analoghe azioni del p.m. contabile, la giurisdizione va riconosciuta “per il solo fatto obiettivo dello svolgimento di tale attività non autorizzata, in violazione del principio della esclusività della funzione pubblica” (Sez. I, sentenze n. 406 del 2014 e n.121 del 2015), tenuto conto che l’obbligo imposto al dipendente pubblico dall’art.53, comma 7, del d.lgvo n.165 del 2001, giusta la tesi di parte pubblica, scaturisce dai vincoli gravanti in ragione proprio del rapporto di servizio che, anche dopo la riforma intervenuta a partire dal d.lgvo n.29 del 1993 alla disciplina del rapporto di lavoro, lo lega alla P.A., trovando il suo fondamento negli artt.28, 54, 97 e 98 Cost. (ex multis, Sez. II, sent. n. 159 del 2016).
In buona sostanza, in condivisione della tesi del P.M., la norma di cui al comma 7 bis dell’articolo 53 del suddetto Decreto Legislativo nr. 165 del 2001, introdotto dalla Legge nr. 190 del 2012, di natura meramente ricognitiva secondo la giurisprudenza prevalente di questa Corte (ex multis I Sezione Giurisdizionale Centrale, Sentenza nr. 406 del 2014, Sezione Giurisdizionale Lombardia, Sentenza citata), alla luce dell’indirizzo propugnato dalla Suprema Corte (ex multis Cassazione, SS.UU. nr. 22688 del 2011, già citata), ha soltanto positivizzato un principio in precedenza ricavato in via interpretativa, nel senso che la giurisdizione nei confronti del dipendente, indebito percettore, volta ad assicurare l’effettivo riversamento del compenso incamerato dal medesimo a vantaggio dell’Amministrazione di appartenenza, spetta alla Magistratura contabile, senza minimamente modificare o integrare lo schema classico e consolidato della figura di responsabilità amministrativa tipizzata delineata dal comma 7 sopra menzionato.
Venendo al merito, la norma del comma 7 dell’art. 53, nel testo vigente anteriormente all’entrata in vigore dell’art.1, comma 42, della legge n. 190 del 2012 disponeva che “I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza. Con riferimento ai professori universitari a tempo pieno, gli statuti o i regolamenti degli atenei disciplinano i criteri e le procedure per il rilascio dell’autorizzazione nei casi previsti dal presente decreto. In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti”.
In particolare, secondo il comma 5 dell’art. 53, “In ogni caso, il conferimento operato direttamente dall’amministrazione nonché l’autorizzazione all’esercizio di incarichi che provengano da amministrazione pubblica diversa da quella di appartenenza, ovvero da società o persone fisiche che svolgano attività d’impresa o commerciale, sono disposti dai rispettivi organi competenti secondo criteri oggettivi e predeterminati che tengano conto della specifica professionalità, tali da escludere casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto, nell’interesse del buon andamento della pubblica amministrazione o situazioni di conflitto, anche potenziale di interessi che pregiudichino l’esercizio imparziale delle funzioni attribuite al dipendente”.
Come già chiarito dalla giurisprudenza della Sezione, che qui si richiama (v., Sez. Piemonte, sent. n. 137 del 2015), la citata disposizione introduce una “…chiara distinzione tra incarichi oggetto di conferimento effettuato direttamentedall’amministrazione e l’autorizzazione che viene riferita, in generale,all’esercizio di incarichi che provengano da amministrazione pubblica diversa da quella di appartenenza, ovvero da società o persone fisiche che svolgano attività d’impresa o commerciale…”.
Conferma di tale lettura è rinvenibile nel primo periodo del comma 7 dell’art. 53, laddove si prevede che “I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza” ; il legislatore ribadisce il distinguo già delineato al comma 5 tra il “conferimento” diretto di incarichi a propri dipendenti e l’autorizzazione che riguarda lo svolgimento di tutti gli incarichi resi da propri dipendenti a favore di enti o soggetti terzi.
Come, altresì, chiarito dalla giurisprudenza contabile “Questo generale regime autorizzatorio, a cui sottostanno anche le categorie di pubblici dipendenti non privatizzati (magistrati, militari, polizia, diplomatici, prefetti etc.), ha una evidente e condivisibile ratio sia civilistica-lavoristica che pubblicistica: consentire al datore di valutare la compatibilità di tale attività extralavorativa con il corretto e puntuale espletamento, in modo terzo ed imparziale, della prestazione contrattualmente dovuta dal lavoratore alla P.A., in ossequio anche al principio costituzionale di tendenziale esclusività (98 cost.) e di buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa (art.97 cost.)” (Corte dei conti, Sez. Lombardia, sent. n. 233/2014).
Del resto, la ratio sottesa alla disciplina in questione è chiaramente quella di consentire una preventiva verifica, mediante il provvedimento autorizzativo, che il dipendente pubblico non sia destinatario di un incarico esterno che possa influire negativamente sull’ordinario svolgimento delle mansioni istituzionalmente attribuite.
Del resto, “…Il generale potere autorizzatorio mantenuto dal legislatore in capo all’Amministrazione di appartenenza è pienamente coerente con il carattere di esclusività che connota il rapporto di lavoro reso a favore delle pubbliche amministrazioni; attraverso la preventiva verifica di
compatibilità, rispetto agli obblighi d’ufficio, di attività lavorative esterne aggiuntive rispetto a quelle di ordinaria competenza del dipendente pubblico, si garantisce che le stesse, per quanto previste da norme di legge, non possano distogliere il dipendente stesso da un proficuo svolgimento delle proprie mansioni istituzionali, con compromissione del livello qualitativo e quantitativo della prestazione istituzionalmente dovuta in virtù del rapporto di impiego pubblico” (Corte dei conti, Sez. Piemonte n. 78/2015).
Osserva il Collegio che, come emerge dalla lettura della citata disposizione di cui al comma 5 dell’art. 53, la valutazione da compiersi in sede di autorizzazione si effettua tenendo conto “della specifica professionalità” del dipendente e riguarda profili di incompatibilità “sia di diritto che di fatto, nell’interesse del buon andamento della pubblica amministrazione o situazioni di conflitto, anche potenziale di interessi…”.
Se quindi, per i casi di incarichi previsti da disposizioni normative, può ritenersi positivamente risolta dal legislatore la valutazione ex ante in ordine alla compatibilità “in astratto” tra l’incarico da autorizzarsi e lo svolgimento delle mansioni d’ufficio presso un’amministrazione pubblica, ciò non fa venir meno la necessità che, per garantire il rispetto dei principi costituzionali di buon andamento e imparzialità richiamati dalla medesima disposizione, l’Amministrazione debba svolgere la preventiva verifica in ordine all’eventuale sussistenza di profili di incompatibilità “di fatto” nonchè di situazioni di “conflitto, anche potenziale di interessi…” tra gli stessi in ragione delle specifiche mansioni svolte dal proprio dipendente all’interno dell’organizzazione amministrativa dell’ente e della concreta modalità del loro svolgimento secondo i principi organizzativi della struttura di appartenenza(Corte dei conti, Sez. Piemonte n. 78/2015).
Ne discende, senza ombra di dubbio alcuno, che, a seguito della violazione del precetto normativo sopra ricordato, il dipendente, che abbia svolto attività extraistituzionale retribuita senza avere preventivamente ottenuto l’autorizzazione dell’Amministrazione di appartenenza, debba rifondere quest’ultima mediante il versamento di un importo corrispondente al compenso incamerato.
Ciò premesso, risulta incontestato che l’odierna convenuta sig.ra BOLDINI non abbia mai richiesto al datore di lavoro alcuna autorizzazione a fronte del pluriennale espletamento di attività extralavorative presso la Casa Circondariale di Verbania.
Coerentemente, il datore di lavoro Azienda Sanitaria Locale del Verbano Cusio Ossola (A.S.L. V.C.O.), in attuazione dell’art.53, co.7, d.lgs. n.165 del 2001, ha richiesto all’odierna convenuta la refusione di quanto percepito per dette attività non previamente autorizzate.
Al riguardo, infatti, risulta documentato come la citata ASL, rilevato, da un lato, lo svolgimento di attività extraistituzionale senza il rilascio della preventiva autorizzazione, dall’altro, che i relativi compensi erano stati interamente corrisposti dall’Ente che aveva assegnato l’incarico retribuito alla odierna dipendente, ha proceduto ad inoltrare una prima richiesta di recupero nei confronti della stessa interessata in data 17.12.2009.
In difetto del pagamento spontaneo della somma rivendicata nell’intimazione, ha quindi provveduto in data 28.03.2011 alla notifica di un atto di ingiunzione per la somma di Euro € 89.305,67 (relativa ai compensi percepiti dalla lavoratrice dal 2004 al 2008, nel rispetto della prescrizione quinquennale contestata dalla dipendente in occasione della precedente richiesta).
La predetta convenuta ha promosso tempestiva opposizione avverso la suddetta ingiunzione, ed il Giudice del lavoro presso il Tribunale di Verbania, all’esito del correlato giudizio, con Sentenza nr. 111 del 28.06.2013, passata in giudicato, ha disposto la revoca del provvedimento opposto, dichiarando che la dipendente nulla doveva restituire alla ASL in rassegna, considerato che l’autorizzazione deve essere richiesta all’Amministrazione di appartenenza del dipendente dai soggetti, pubblici o privati, che intendono conferire l’incarico, diretti destinatari del descritto obbligo, rimanendo ferma la possibilità per il lavoratore interessato di richiedere in prima persona la prevista autorizzazione, configurandosi tuttavia la medesima scelta come una semplice facoltà, con il corollario che il dipendente ben può restare completamente inerte.
Al riguardo, il Collegio non ravvisa alcun condizionamento discendente dal giudicato formatosi sulla ricordata pronuncia del Giudice Ordinario.
In effetti, la domanda proposta dalla Procura contabile avanti a questo Giudice concerne non il recupero avviato dall’ASL nei confronti della signora BOLDINI bensì l’accertamento di responsabilità concernente l’omesso riversamento da parte della pubblica dipendente dell’Amministrazione dei compensi ricevuti per gli incarichi non autorizzati rientrante, ad avviso del Collegio, ai sensi del comma 7 bis dell’art. 53 d.lgs. n. 165/2001 nell’alveo della giurisdizione della Corte dei conti.
Ciò premesso, a prescindere dalla considerazione fondata sulla evidente diversità delle due azioni, come efficacemente evidenziato dal Pubblico Ministero in udienza, essendo quella promossa dalla ASL di natura restitutoria e basata sugli adempimenti derivanti dallo svolgimento del rapporto di lavoro, mentre quella incardinata dalla Procura Regionale di natura risarcitoria a fronte del danno erariale cagionato dalla convenuta, almeno secondo la prospettazione attorea, per non avere l’interessata riversato i compensi comunque incassati, osserva il Collegio che il giudicato civile non può mai fare stato nel processo contabile.
Infatti, l’unica eccezione al fondamentale postulato della autonomia e separatezza di ciascun giudizio dagli altri risiede nelle specifiche norme del C.P.P., che prevedono siffatta valenza ultrapenale, in presenza di determinate e tassative condizioni, soltanto nell’ipotesi della Sentenza irrevocabile di condanna o di assoluzione, ai sensi degli articoli 651 e 652 del menzionato Codice di rito (ex multis Corte di Cassazione, SS.UU. nnrr. 1768 e 12539 del 2011).
Rimane, pertanto, assolutamente integro ed intangibile il principio del libero convincimento della Sezione in relazione sia all’apprezzamento dei fatti che emergono dal fascicolo processuale, sia naturalmente all’attività ermeneutica relativa alle norme che disciplinano la fattispecie concreta.
Tutto ciò premesso, l’inosservanza del menzionato basilare precetto sulla previa doverosa autorizzazione comporta per i dipendenti pubblici l’assoggettamento all’obbligo di cui all’art. 53, co.7, D.Lgs. n. 165 del 2001 secondo il quale “il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti“.
Nella fattispecie il Collegio reputa pienamente integrata la predetta violazione.
La ragion d’essere della citata disposizione, si ribadisce, risiede nell’esigenza di consentire al datore di valutare la compatibilità dell’attività extra lavorativa con il corretto e puntuale espletamento, in modo imparziale, della prestazione contrattualmente dovuta dal lavoratore alla Pubblica Amministrazione. L’interpretazione più coerente della disciplina di cui supra – della parte in cui essa dispone che il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte debba essere versato a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore – impone di ritenere che il versamento del compenso da parte del soggetto erogante debba avvenire qualora non lo abbia già corrisposto al prestatore non autorizzato. Qualora, invece, il compenso sia stato già versato a quest’ultimo, come nel caso di specie, l’amministrazione deve necessariamente rivalersi direttamente ed esclusivamente sul dipendente.
Deve pertanto ritenersi che l’avvenuto pagamento delle prestazioni lavorative espletate dalla Boldini da parte del Ministero della Giustizia, in assenza della prescritta autorizzazione dell’Azienda sanitaria Verbano Cusio Ossola, abiliti l’Amministrazione di appartenenza ad agire direttamente nei confronti della propria dipendente, stante l’avvenuto inadempimento dell’obbligo di esclusività del rapporto di pubblico impiego.
Assolutamente condivisibile appare, quindi, la tesi accusatoria propugnata dall’Ufficio Requirente nell’atto di citazione, sul rilievo che gli atti depositati nel fascicolo processuale provano che la convenuta ha posto in essere la condotta antigiuridica contestata, avendo la medesima svolto incarichi retribuiti per una durata pluriennale in assenza della preventiva autorizzazione dell’Amministrazione di appartenenza, collocandosi in aperto ed insanabile contrasto con la norma cogente di cui al citato articolo 53, comma 7, del Decreto Legislativo nr. 165 del 2001 e successive modifiche.
Venendo alle componenti strutturali dell’illecito amministrativo in esame, evidenti, riconosciuti ed incontestati appaiono la condotta ed il danno ex lege determinato dalla convenuta.
Parimenti sussistente è la colpa grave della BOLDINI, la quale ha reiterato nel tempo la contestata condotta consistita nella prestazione lavorativa non autorizzata a fronte del chiaro precetto normativo, un tempo contenuto nell’art.58 del d.lgs. n.29 del 1993 e poi nell’art.53, co.1, d.lgs. n.165 del 2001.
La limpida formulazione, unita al noto principio “ignorantia legis non excusat” (nella specie l’ignoranza è ingiustificabile per la chiarezza testuale), non consentono di ipotizzare una buona fede della convenuta (ad esempio, per mancata divulgazione dei precetti in materia da parte del datore di lavoro, opportuna ma non certo doverosa).
Inoltre, il contegno omissivo protratto per un così lungo arco temporale dalla convenuta dimostra l’inescusabile negligenza ed imprudenza, nonché l’evidente trascuratezza dei basilari doveri di dipendente pubblico, che costituiscono l’essenza del requisito soggettivo in questione.
Segnatamente, avere accettato plurimi incarichi retribuiti in modo continuativo senza mai chiedersi se fosse necessaria l’autorizzazione preventiva della propria Amministrazione, ignorando presumibilmente che la stessa doveva essere richiesta in prima battuta dall’Ente conferente, e, comunque, disinteressandosi completamente per un periodo così ampio della naturale e doverosa verifica, nel proprio ed esclusivo interesse personale, in ordine all’effettivo rispetto di siffatto adempimento da parte della Casa Circondariale di Verbania, integra indubbiamente un contegno ingiustificabile connotato dalla presenza del requisito soggettivo della colpa grave, tenendo conto, peraltro, che la disposizione violata si presentava di assoluta chiarezza e di immediata percezione.
L’importo introitato contra legem dalla convenuta, e che la stessa avrebbe dovuto riversare all’amministrazione in forza dell’art. 53, co.7, D.Lgs. n. 165 del 2001, è quantificabile nella somma di euro 89.305,67=.
Ritiene, tuttavia, il Collegio, in considerazione della particolarità del caso e dell’autorizzabilità in astratto delle prestazioni lavorative per cui è causa, nonché dell’assenza di precedenti della convenuta, che ricorrano i presupposti per l’applicazione del potere riduttivo di cui all’art. 52, comma 2, del R.D. 1214/1934.
Per l’effetto, a giudizio del Collegio, si ritiene di rideterminare la pretesa avanzata da parte attrice, con un abbattimento, rispetto all’importo richiesto in sede di domanda, della percentuale del 60%, pari ad euro 53.584,00, così da pervenire all’individuazione dell’importo definitivo della condanna nella misura di euro 35.721,67= (trentacinquemilasettecentoventuno/67=), comprensiva di rivalutazione monetaria, somma maggiorata di interessi legali dalla pubblicazione della presente sentenza fino all’effettivo soddisfo.
Le spese di giustizia seguono la soccombenza e vengono liquidate, a cura della Segreteria di questa Sezione, come al dispositivo.
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